Undici anni oggi

Undici anni oggi

Appena varco la soglia, so già che da casa di Massimo Zanin non me ne andrò, non del tutto. Se ne andranno forse le mie gambe, esercitando la loro funzione precipua di muoversi, di trasportarmi in giro inseguendo storie, curiosità, progetti. Che è poi quello che farebbero le sue, di gambe, se non fossero paralizzate assieme a tutto il resto. Da undici anni, dal 4 maggio del 2006, giorno in cui una BMW ha travolto la sua auto mentre faceva manovra per imboccare il vialetto di casa, Massimo è fermo, immobile, serrato nel suo corpo che non risponde quasi più a nessuno stimolo.

L. I. S. la chiamano, Locked In Syndome, detta anche ‘del chiavistello’.

E’ una patologia neurologica rara, una condizione di prigionia estrema nella quale il paziente è cosciente e sveglio, ma non può effettuare nessun movimento, né parlare. Deglutizione e respirazione sono assistite, la possibilità di alimentarsi per via orale, dunque di avvertire i sapori, di esperire la conoscenza attraverso il più ancestrale dei sensi (ci nutriamo al seno prima ancora di aprire gli occhi) e provare un seppur limitato piacere, si riacquista, e non sempre, solo dopo anni di rieducazione paziente da parte di un logopedista.

Massimo mi studia, poi mi saluta: ha solo il suo sguardo azzurro, per comunicare con il mondo, uno sguardo guizzante, mobilissimo, attento. E con l’iride traccia linee immaginarie, costellazioni su una tavoletta alfabetica trasparente inchiodando i segni, scandendo le parole una lettera alla volta, mentre suo fratello Giorgio, pazientemente, traduce.

V – pausa /- E – pausa/ G – pausa/…

La prima parola-costellazione che indovino, anticipando lo spelling, è ‘vegetale’. E così mi risponde, quando gli chiedo cosa vorrebbe fosse detto di lui.

“Che non sono un vegetale, ho occhi e orecchi, ci vedo e ci sento ancora, sono una persona”.

Ha più voglia di dirmi cosa non tollera, descrivere le sue insofferenze, comprensibilmente, gli viene più naturale. Scarsa empatia e prevaricazione, mi spiega, sono le cose peggiori. La prima la sperimenta negli altri sotto molteplici forme, tra cui quella di non avere la pazienza di attendere le sue macchinose repliche, così tanto più lente del suo pensiero. Se qualcuno se ne va prima che io gli abbia risposto – si chiede – che senso ha avuto farmi una domanda? “Prepotente” – aggiunge – “è invece chi mi nasconde la tabella per farmi tacere, o per impedirmi di ribattere: mi fa sentire impotente”.

Il fatto che delle tante forme di vulnerabilità che lo affliggono, Massimo scelga di concentrarsi sulla pena di non potersi difendere, o semplicemente esprimere, significa dunque che la cosa importante per lui, è rivendicare il diritto di essere visto nel qui e ora. Chiede che al suo presente venga riconosciuto un valore e che la sua identità non si esaurisca nella malattia. Che l’uomo di oggi si aggiunga e non si sostituisca a quello di ieri, il cui passato, sotto forma di foto e attestati, è visibile tutt’attorno, sulle pareti: il diplomato all’Isef, il receptionist dell’albergo Le Sorgenti, l’infaticabile testimone di Geova, che suonava centinaia di campanelli per portare un caparbio messaggio di amore e speranza. Cosa che non ha mai smesso di fare: quando gli chiedo se ha fede, me ne regala a memoria una definizione, citando dalla Bibbia, lettera agli Ebrei, capitolo 11: “La fede è la sicura aspettazione di cose sperate, l’evidente dimostrazione di realtà benché non vedute“.

Lo prendo per un sì, giacché di realtà dimostrate e non vedute, attorno a lui, se ne percepiscono tante.

 

Undici anni oggi risarcimento danni

 

L’ampio locale dove mi riceve, pratico e spartano, attrezzato per le sue peculiari esigenze, se non può definirsi esattamente un paradiso, è comunque un posto in cui tutto parla della conquista di una faticosa, sudata serenità, dove il dolore vibra, presente e palpabile, ma sembra in qualche modo aver deposto le armi.

Dall’attigua cucina in legno chiaro filtra la luce dorata e morbida del pomeriggio e conferisce ancor più calore a quella che è tutti gli effetti è casa. Sul muro c’è un grande quadro coi girasoli; accanto, un poster disegnato a mano, dono di un amico, da cui Homer e Bart Simpson scrutano con comica severità l’osservatore. L’abbondanza di libri e dvd – gli piacciono soprattutto Friends, i documentari e la fantascienza – lascia indovinare una routine in cui la personalità e i gusti di Massimo si esprimono attraverso la fruizione di storie, e questo me lo fa sentire vicino. Tutti e due viaggiamo molto di fantasia, solo per che me è una scelta, e non è una differenza da poco.

Anche la radio deve tenergli molta compagnia, lo intuisco da un post-it dove sono annotate le frequenze delle sue stazioni preferite.

Sull’ ordinata scrivania nell’angolo stanno, uno a fianco all’altro, i raccoglitori della corrispondenza e delle carte dell’amministrazione. Sulla bacheca a muro che la completa, spiccano chiare ed essenziali le tabelle di rotazione dei medicinali, dei turni di assistenza infermieristica e della fisioterapia. La gestione complicata di un’esistenza in cui la delega agli altri ha un ruolo fondamentale. Una vita per procura, penso. Anche nel più minuto dei piaceri: il cesto pieno di caramelle non è lì per lui, ma è una cortesia per gli ospiti, per chi viene a trovarlo.

La famiglia di Massimo si avvicenda a prestargli cura con discrezione e premura, non disgiunte da una certa rude, spontanea schiettezza: si definiscono dei taciturni mentre lui – che di quella tavoletta non si stanca mai – sarebbe un chiacchierone (“Noi qui scherziamo, signora, lo facciamo per lui, per sdrammatizzare, non ci faccia caso”).

Non mi sembrano però troppo a disagio, e mi rendo conto che se non vengo vissuta come un’intrusa o un’estranea, è perché si fidano di chi mi ha portato qui. Di chi ha voluto che lo conoscessi e raccontassi di lui. Sono i consulenti di GIESSE Risarcimento Danni, coloro la cui determinazione ha sorretto quella di Zanin e della sua famiglia, allo scopo di fargli ottenere ciò che gli spettava e di cui aveva bisogno: se Massimo oggi può dirsi a casa, invece di soggiornare in una struttura sanitaria, senza altra alternativa che ricevere cure magari puntuali, ma in un clima asettico e impersonale, è anche merito loro.

In parallelo alla sua complessa vicenda (un caso medico fuori dall’ordinario, un’odissea burocratica e un iter giudiziario lungo e travagliato), corre, infatti, quella delle persone che l’hanno assistito, guidato e sostenuto durante tutto il percorso che ha condotto al maxi risarcimento di cui hanno parlato i giornali, focalizzandosi su una cifra che ha il potere di stupire, di sembrare maxi, – e non appena ‘congrua’ o ‘adeguata’ – solo a chi non provi a pensarsi intrappolato nel proprio corpo, impossibilitato a tutto fuorché a volare con l’immaginazione.

Undici anni risarcimento lesioni gravi

Per chiunque altro, per chiunque ci riesca anche solo per un attimo, essa rimane un numero, un numero buono per un titolo ad effetto: tre. Tre milioni di euro, dopo una battaglia legale durata sette anni, il tempo che ci mette un bambino a nascere, camminare e andare a scuola. Un numero ampiamente inesatto, tra l’altro, e per difetto: l’Assicurazione, avendo agito con scorrettezza inescusabile, avendo versato solo un terzo del massimale assicurato (!) sino all’ultima udienza del processo di primo grado, è stata infatti condannata per cd. mala gestio e costretta, quindi, a risarcire Zanin ben oltre il massimale: quasi cinque milioni.

E’ facile dunque intuire il rapporto che intercorre tra la famiglia Zanin e il gruppo Giesse e comprendere le ragioni di tanta cordialità e riconoscenza verso chi si è speso così tanto perché Massimo fosse tutelato fino in fondo e venisse pienamente risarcito.

Il concetto affiora automatico sulle loro labbra, lo ribadiscono con la stessa immediatezza e convinzione fideistica con cui Massimo ha recitato il suo versetto biblico: risvolto patrimoniale di diritti fondamentali come il diritto alla salute e il diritto alla vita.

Letimologia, ancora, mi svela altri aspetti: re-sarcire, scopro, vuol dire rassettare, riparare di nuovo.

Ha dunque a che fare con il cucito, con il rammendo, e l’idea di un ristoro su misura, sartoriale, in cui l’unicità dell’individuo abbia un peso, è sicuramente ancora più calzante in questo caso, un caso che ha impegnato non poco i giudici che se ne sono occupati. Che hanno dovuto pronunciarsi in merito al senso autentico e profondo di un’espressione apparentemente cruda come “aspettativa di vita”, finalmente intesa in senso qualitativo e non quantitativo.

A Massimo è stata riconosciuta la legittimità di un’aspettativa tutt’altro che accessoria: quella alla dignità del vivere versus il mero sopravvivere, quella di venire curato e assistito in casa propria, avendo i propri cari accanto, sentendosi libero di cercare in una dimensione discreta, accogliente e personale, un nuovo equilibrio, nuove risposte e nuove abitudini per affrontare la sfida di esistere. La sentenza che gli ha dato ragione sembra indirettamente stabilire il principio che la propria abitazione è un’estensione del sé e che non tenerne conto o costituire una situazione in cui venga impedito di curarsi colà senza valido motivo, lungi dal remunerare il danno, finirebbe per aggravarlo.

Me ne convinco anche io, nel poco tempo che trascorro qui, prima di andarmene anche se non del tutto. Se ne vanno forse le mie gambe e le mie braccia, che reggono una borsa con dentro due libri, i preferiti di Massimo, biografie* di chi, come lui, sconta un ergastolo senza reato. Sul treno, ne sfoglio uno, in un punto dove si parla della vita d’ospedale: “roviniamo il paesaggio: siamo come volatili dalle ali spezzate, uccelli del malaugurio, che hanno fatto il nido dentro un corridoio di neurologia al solo scopo di riempire di imbarazzo i meno sfortunati”.

Ripenso ai Simpson, ai girasoli, alle caramelle, lo richiudo e lo metto via.

* Lo scafandro e la farfalla, Jean Dominique Bauby, 2008 ed. Ponte alle Grazie.

* Prigioniero del silenzio, P.& S. Vigand,1998, ed. Rizzoli.

 

dott.ssa Monica Mariani, scrittrice

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