La consacrata autonomia del danno morale e i criteri per la sua liquidazione

La consacrata autonomia del danno morale e i criteri per la sua liquidazione

Anche per il Legislatore, ormai, la vera essenza del danno non patrimoniale è costituita dalla sua doppia dimensione: quella interna a sé, la sofferenza interiore, e quella esterna, la relazione con tutto ciò che è “l’altro da sé”. Un prezioso intervento del Dott. Giacomo Travaglino nel nostro magazine “Il Risarcimento”. 

Sembra ormai pacificamente (?) riconosciuta la vera essenza del danno non patrimoniale.

Eppure, anni fa, nel mondo del diritto, le discussioni, le perplessità, i dubbi fiorivano: così, senza evocare polemicamente memorie passate – perché ormai, della memoria, siamo abituati a farne a meno, per via dei nuovi, diabolici strumenti informatici – ma per essere certi che alcune acquisizioni, alcuni traguardi, alcune consapevolezze siano state definitivamente raggiunte, è opportuno ricordare da dove siamo partiti e, soprattutto, che cosa è accaduto in questi ultimi dieci anni.

La recente consonanza sulla reale fenomenologia del danno alla persona è, difatti, approdo di tempi recenti ed insieme auspicio che tutti gli interpreti si conformino ad una realtà che non è più solo dottrinaria o giurisprudenziale, ma anche (e soprattutto) normativa.

Ma non è sempre stato così: all’indomani delle sentenze di San Martino dell’11 novembre 2008, autorevolissima dottrina, seguita poi da gran parte della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, declamava impetuosamente l’unicità del danno non patrimoniale, partendo da tre affermazioni contenute nelle sentenze del 2008: (a) costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno morale e del danno biologico; (b) la categoria del danno morale deve essere definitivamente abbandonata, perché priva di solide basi giuridiche; (c) di danno esistenziale non è più dato discorrere, se non come “categoria descrittiva”.

Affermazioni da cui tanta dottrina e tanta giurisprudenza ha poi tratto spunto per ripetere, in modo forse acritico, questi sibillini principi.

Siamo oggi al cospetto, fortunatamente, di un intervento legislativo che pare assolutamente univoco, al cospetto di un legislatore che, per una volta, è stato chiaro, limpido, inequivoco, ed ha (ri)scritto, con parole adeguate, innanzitutto la nuova rubrica degli articoli 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private, ove non si discorre più di danno biologico, ma di danno non patrimoniale.

Non è mutamento da poco, non è modifica dal valore soltanto lessicale.

Ci si (ri)avvicina, difatti, alla realtà, all’essenza, alla verità del danno alla persona: non è più il danno biologico il centro del sistema risarcitorio, nel 2008 primo motore immobile dell’universo non patrimoniale, diventato tale forse perché la stessa idea di unità semplifica, rassicura e consola, mentre le diversità inquietano, e non solo nel mondo del diritto; tuttavia, quando l’unificazione è una costruzione categoriale che tradisce la realtà, non può durare a lungo.

Prima ancora dell’intervento legislativo, le tappe dell’evoluzione giurisprudenziale hanno dovuto percorrere sentieri accidentati: decisioni largamente minoritarie avevano cercato di “estendere” il portato del decisum delle Sezioni Unite oltrepassandone il significato e l’intenzione, nel tentativo di  demistificare la realtà del danno alla persona (tutto questo, tecnicamente, avrebbe comportato la necessità di una nuova istanza, di un nuovo intervento delle Sezioni Unite): a partire dal 2011, alcune pronunce, ricordando in questo il Marco Antonio dell’orazione funebre recitata sul cadavere di Cesare appena ucciso da Bruto, pur con incipit di formale ossequio “ai principi di cui alle Sezioni Unite”, se ne sono consapevolmente discostate.

Perché tutto questo?

Perché l’errore di fondo è stato quello di immaginare che il danno biologico fosse il modello teorico di riferimento del risarcimento dell’intero universo dal danno alla persona, e il passaggio successivo è stato quello della proclamata unicità del danno non patrimoniale, una sorta di fusione a freddo del danno biologico e danno morale, in una visione che ha spinto il Tribunale di Milano, nel 2009, a riscrivere le sue celebri tabelle, poi assurte ad impensabili vette paranormative all’indomani della sentenza n. 12408/2011 della terza sezione della Cassazione.

Così, comparando le tabelle meneghine pre e post 2008, si scopre che, già nelle tabelle del 2009, è ricompresa, in automatico, la (presunta) percentuale di danno morale.

E questo, oggi, costituisce un problema di non poco momento

La creazione di un modello risarcitorio in assenza di una norma che disciplini una fattispecie astratta (tale più non essendo, fin dagli anni ’70, l’art. 2059 c.c., da tempo abrogato per via giurisprudenziale), può seguire due diversi itinerari di pensiero: o si procede per deduzione – e cioè si immagina e si costruisce un modello teorico-generalista per poi applicarlo alle singole fattispecie concrete – o, viceversa, si procede per induzione, cioè si assume come punto di partenza una fattispecie concreta e da quella si procede verso la ricostruzione di un modello applicabile all’intero universo del danno alla persona.

Se si volesse procedere seguendo la strada implicitamente adottata dalle Sezioni Unite del 2008, e cioè quella dell’induzione, probabilmente non era e non è quella del danno biologico la fattispecie concreta da cui prendere le mosse per ricostruire la fattispecie del danno non patrimoniale.

La vicenda umana che più di ogni altra si presta a tale costruzione, difatti, è quella della perdita del rapporto parentale, il danno più grave che possa esistere nella vita di una persona.

E la perdita del rapporto parentale induce (impone) una prima riflessione.

Cosa accade quando si perde un genitore? Si diventa orfani.

Cosa accade quando si perde un coniuge? Si diventa vedovi.

Ma cosa accade quando si perde un figlio …?

Accade che non esiste una parola, una sola parola (e non soltanto nella pur straordinaria lingua italiana, ma nemmeno nella altrettanto ricca lingua tedesca), che possa descrivere, narrare, riprodurre verbalmente qualcosa che rappresenta la vetta (o gli abissi) di un danno (di una sofferenza) che una persona possa subire durante la sua vita.

La nostra lingua è silente. E’ impotente a descriverlo.

Se si fosse, altrettanto silenziosamente, riflettuto su tutto questo, se si fosse serbato lo stesso silenzioso sgomento che perfino la nostra meravigliosa lingua riserva a queste vicende, non avremmo assistito, negli anni, a spettacoli poco decorosi, dove le grida, le aggressioni verbali, le insolenze, gli scontri dottrinari e giurisprudenziali talvolta simili a quelle tra curve di ultras di opposte tifoserie, si sono sprecati: quando parliamo di danno alla persona è il silenzio l’unico incipit di qualsiasi riflessione tesa alla costruzione di un modello teorico che sarà comunque e sempre, inevitabilmente, disomogeneo, disarticolato, inadeguato, impotente rispetto alla realtà dei fatti, un modello che si serve del denaro in una dimensione dove il denaro non ha cittadinanza.

Risarcire, re-sarcere, significa ricucire, significa riparare qualcosa di irreparabile: ed è questa sensazione di impotenza che induce alla riflessione su come usare consapevolmente lo strumento “risarcitorio”.

Cosa accade quando si perde il rapporto parentale?

Chiunque abbia osservato o vissuto, direttamente o indirettamente, questa devastante esperienza sa che esiste una dimensione di sofferenza, di dolore interiore, che modifica e stravolge la relazione con se stessi; muta poi tutto ciò che è relazione esterna con l’altro da sé, con quello che è altro da noi, che cambia a sua volta, inevitabilmente, in modi, forme, intensità sempre diversi.

Se vogliamo immaginare una teoria normativa del danno alla persona, il modello su cui riflettere non può che essere questo.

Le Sezioni Unite del 2008 hanno meritoriamente cancellato il danno esistenziale bagatellare (quello per il quale si è risarcita la signora che aveva avuto il crollo della pettinatura durante il matrimonio con 500 euro, o quella a cui si era rotto il tacco in un club-vacanze con 200 euro, o ancora il tifoso di calcio che lamentava l’interruzione di corrente da parte dell’Enel durante la partita del campionato), ma certamente non potevano cancellare, con l’introduzione di una sorta di “modello unico” del risarcimento, la vera essenza del danno alla persona, sovrapponendo ed assorbendo impropriamente il danno morale in una dimensione esistenziale “dinamico-relazionale” (questa la definizione normativa del danno biologico!) che il legislatore, fin dal 2000, ha individuato come danno alla salute. Se di “duplicazione” si fosse voluto discorrere, allora, lo si sarebbe dovuto fare quando al danno biologico si sovrapponeva, immaginandone una eterogeneità addirittura morfologica, il danno esistenziale, mentre le due voci di danno in realtà coincidono, quando si discorre di danno alla salute.

Ma di nessuna “duplicazione risarcitoria” è lecito discorrere al cospetto del danno morale.

Né di alcuna duplicazione risarcitoria è lecito discorrere quando si è al cospetto di altre lesioni di altri diritti della persona, diversi da quello alla salute, che trovano copertura nel dettato costituzionale, e si caratterizzano, a loro volta, per la duplice componente morale e relazionale.

Il fascino dolente dell’universo del danno alla persona è nella sua irredimibile “uguaglianza”. Tutte le donne, tutti gli uomini, sono uguali di fronte alla sofferenza, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di colore della pelle, di Paesi d’origine.

Il danno alla persona ha due forme, come, d’altronde, due sono le forme del danno patrimoniale (nessuno ha mai sostenuto che il danno patrimoniale sia unitario e che, quindi, nel lucro cessante sia ricompreso, per sua natura, anche il danno emergente).

In questa simmetria morfologica tra danni (del tutto inconsapevolmente tracciata dal legislatore del ’42 negli artt. 1223 e 2059 c.c.), il danno emergente, così come il danno morale, è categoria che riflette l’in sé del patrimonio, la sua dimensione “interna”, mentre il lucro cessante, al pari del danno dinamico-relazionale, è vicenda destinata a proiettarsi all’esterno e nel futuro: qualcosa che nel futuro accadrà.

Ed è davvero arduo affermare, pensare, immaginare che la fenomenologia del danno alla persona sia qualcosa di diverso, da un canto, dalla sofferenza interiore e, dall’altro, dalla relazione esterna con “l’altro da sé”, con la diversa dimensione della vita di relazione, anche se nessuno di questi due momenti è automaticamente (e sempre) presente nella realtà del danno non patrimoniale. Coerentemente, il legislatore non li ritiene automaticamente (e sempre) risarcibili.

Questa realtà “fenomenologica” del danno alla persona fu ben presente al legislatore penale che, con l’art. 612 bis, che entra in vigore nel febbraio del 2009, definisce il reato di stalking come la consumazione di atti persecutori che cagionano o uno stato di ansia o di paura ovvero una significativa modificazione delle abitudini di vita: a pochi mesi dall’11 novembre 2008, una norma di legge aveva già simbolicamente colto la morfologia, la fenomenologia, la duplice essenza del danno alla persona, lasciando poi immaginare che i due aspetti del danno non patrimoniale siano normalmente destinati a coesistere (pur senza fondersi in un indistinto crogiuolo categorial-normativo), senza peraltro escludere una diversa realtà, da accertare di volta in volta nel singolo caso concreto.

Perché è la specificità, l’unicità, l’irripetibilità delle singole vicende umane a ricordare a noi tutti frequentatori dell’universo della responsabilità civile (medici legali, avvocati, magistrati) la vera essenza del danno non patrimoniale, la sua doppia dimensione di sofferenza e relazione: così, non si dovrebbe più leggere, in alcune sentenze, che “la parte non ha provato …” e, nel contempo, verificare che nelle fasi istruttorie non sono stati ammessi i mezzi di prova richiesti. Esiste, poi, uno straordinario mezzo istruttorio, l’interrogatorio libero delle parti, che certamente non può essere sempre utilizzato, ma che in alcuni casi, come ad esempio con il macroleso o con il genitore del figlio deceduto, può essere di grande utilità: ascoltare la persona, vederla fisicamente, guardarla, comprenderne la nuova realtà di vita, e poi decidere.

Quanto al dato più strettamente normativo, torna alla mente uno scritto di Sant’Agostino (Contra academicos, 368 d.C.) ove si esclama con forza “Tolle! Lege!!” (traduzione ad uso di alcuni eminenti rappresentanti politici del nostro tempo: Prendi! Leggi!”).

Un invito ancora assai attuale, un’attività in sempre più sconsolante disuso (sono tempi di slogan e di selfie).

L’avessimo fatto davvero – prendere (un testo normativo) e leggere (una norma assolutamente chiara nella sua stessa espressione lessicale), non avremmo assistito (e non assisteremmo ancor oggi) a liti (da cortile) che hanno consentito la creazione di intere (quanto inutili) biblioteche: la definizione del 2000 del danno biologico, difatti, era già “la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali” (“Che” è un pronome relativo, la cui funzione sembra essere sfuggita a molti per 20 anni).

Così, il legislatore del 2017 ha voluto (o dovuto?) ribadirne il significato (e la funzione grammaticale e logica).

Dopo la pedissequa, tradizionale definizione di danno biologico, alla lettera e) del punto n.  2 dell’art. 138 CdA novellato, si legge: “al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico è incrementata….”.

Ci si chiede: davvero tale novella si può interpretare altrimenti che:

  1. Esiste e viene accertato un danno biologico, la cui essenza è esclusivamente quella dinamico relazionale;
  2. Esiste, poi, e viene accertata, la ulteriore possibilità, non automatica, che tale danno abbia avuto anche (come del tutto opportunamente si legge al punto 10.1. della sentenza 235/2014 della Corte costituzionale!) una ripercussione in termini sofferenza interiore.

Leggere – Tolle! Lege!!– cosa abbia disposto, con la novella degli artt. 138 e 139 CdA, il legislatore nel 2017 significa, allora, rendersi finalmente conto che:

  1. Le tabelle del danno alla salute devono contenere un parametro monetario riferito al valore del solo danno dinamico relazionale;
  2. Le “unificazioni” tabellari post 2008 sono affette dall’ulteriore vizio di presumere, in guisa di danno in re ipsa, la componente morale della lesione;
  3. Con riferimento a quel primo parametro, si potrà (e non necessariamente si dovrà) corrispondere un aumento per il danno morale, se allegato e provato, secondo i criteri di cui alla lettera e) del punto n. 2 dell’art. 138 CdA.
  4. Quanto alla c.d. personalizzazione del danno, il successivo punto 3 recita testualmente: “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico relazionali obbiettivamente accertati”, di tal che tale personalizzazione, prevista per vicende di particolare ed eccezionale rilevanza, dovrà avere ad oggetto i soli aspetti dinamico relazionali del danno alla salute.

Vere tali premesse, non sembra impresa titanica redigere una tabella seguendo gli odierni dettami di legge, e prevedere, quindi, un valore monetario “puro” per il danno biologico, cui si affianca un criterio ex lege per la quantificazione della diversa e ulteriore componente interiore della sofferenza (il danno morale); in presenza di vicende eccezionali che incidano in maniera rilevante sulla vita di relazione, prevedere poi un possibile e legittimo aumento del valore tabellare (comunque contenuto, ex lege, nella misura massima del 30%).

Il modello teorico del danno alla persona, in definitiva, tanto nel caso di lesione della salute, quanto in quello di vulnera arrecati ad altri diritti costituzionalmente tutelati, è (è sempre stato; sarà sempre) quello che si articola nelle due forme, distinte tra loro, normalmente (ma non necessariamente) concorrenti, della sofferenza interiore e della modificazione degli aspetti relazionali dell’esistenza del danneggiato.

Quanto al danno parentale, una sommessa riflessione per il legislatore o, in mancanza, per i legislatoritabellatori.

Esiste una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus.

Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento se è vero che, contrariamente alle originarie teorie freudiane sull’elaborazione del lutto, si è ritenuto di recente che “quella della cosiddetta elaborazione del lutto sia un’idea fallace; vero che camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto” (M. Recalcati, L’arte che guarisce le nostre ferite).

Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. E’ il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo.

Dott. Giacomo Travaglino

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