La storia: dalla finestra sul lago

La storia: dalla finestra sul lago

Quando suono al campanello della casa sul lago della famiglia Moscheni sono sveglia da molte ore, nonostante siano appena le 10 del mattino.

Aspetto con impazienza che qualcuno mi apra il cancelletto con quel pudore che si prova quando sai che stai per conoscere delle persone che vivono a stretto contatto con un immenso dolore, ogni giorno, e tu no, e quindi senti di non avere il diritto di essere lì, ti chiedi come dovrai comportarti, se percepiranno la tua presenza nella loro proprietà come un’invasione di campo.

Da fuori il cancello intravedo una ragazza affaccendata in qualche mestiere, alza appena lo sguardo, mi fa un cenno, poi mi apre; solo successivamente scoprirò che si tratta di Isabel, la figlia di Sergio. Scendo lungo il vialetto che attraversa il giardino e che porta all’ingresso della casa. Esce una signora con un taglio di capelli sbarazzino, è bionda, ha uno sguardo duro, ma accogliente: è Lina, la moglie del Signor Moscheni. “Bene arrivati”, dice. Mi sento subito più tranquilla.

Varcando la soglia della loro casa resto subito molto colpita dalla luce calda che invade l’atrio; gli spazi sono ampi e l’arredamento è chiaro, arioso.

Entriamo in cucina, la moca è già sul fuoco, “accomodatevi, Isabel ha già messo su il caffè”. Nessuno spazio ai dubbi, preludio di quella che sarà la nostra chiacchierata.

La prima cosa su cui mi cade l’occhio è un monitor posto in fondo alla stanza dal quale si vede il Signor Sergio; intuisco immediatamente che non c’è uno spazio all’interno di quella casa da cui non ci sia il modo di controllare che lui stia bene, che non gli serva qualcosa. Sergio Moscheni è costretto in un letto dal 2007, anno in cui ebbe un incidente con un camion, un immenso bolide che lo ha letteralmente travolto; Sergio da allora non può più muoversi, né parlare; non può più insomma comunicare col mondo esterno. Ma comunica con Lina e con Isabel, come mi raccontano immediatamente.

“Con Sergio è sempre tutto da interpretare, ma risponde a ciò che dico. A volte gli faccio “se capisci quello che ti dico allora fammelo intuire.” Lui non lo fa, e allora continuo “Non fare il balosso!” E lui mi risponde: alza un dito della mano destra, oppure mi sorride”. E allora so che c’è, che mi sta ascoltando.”

La Signora Lina è una guerriera. Ha combattuto con le unghie, per anni, per riuscire a portare suo marito nella loro casa costruita con i risparmi di una vita. Il loro nido, il loro obiettivo, il rifugio tanto sudato.

Sono trascorsi 4 anni dal momento in cui Sergio ebbe l’incidente a quello in cui Lina lo ha riportato nella loro casa sul lago. Le strutture ospedaliere cambiate in quei pochi ma intensi anni sono state molte: luoghi diversi, personale diverso, ma un’unica costante, racconta Lina: “da nessuna parte, in nessun momento ho sentito che mio marito veniva trattato da essere umano. Il personale medico entrava nella sua stanza e neanche lo salutava, dico io, un buongiorno, cosa ti costa? E mentre lo cambiavano, o lo pulivano, parlavano degli affari loro, della loro quotidianità con i dettagli più stupidi: l’ultima conquista fatta al bar, le avventure della notte prima. Ma non si rendono conto che lì c’è un uomo che sta ascoltando, dico io? Non potevo più sopportare quella situazione. E neanche potevo continuare a lasciare Isabel a casa da sola.”

Isabel abbassa lo sguardo. E’ una ragazza che ti colpisce anche se non lo vuoi per la sua bellezza inconsapevole, per il suo sguardo che non riesci mai ad intercettare, per la sua durezza incerta che lascia intravedere il baratro delle sue insicurezze di giovane donna provata da anni di solitudine; aveva 20 anni quando suo padre ebbe l’incidente, e prima di quel momento aveva una carriera proiettata nel mondo della ristorazione e del turismo, un fidanzato e degli amici; dopo quel momento tutto è stato più difficile ed attorno a lei si è creato un po’ di vuoto.

Solitudine. Mi fermo un attimo a pensare all’isolamento di chi ha fatto una scelta coraggiosa come quella di Lina e Isabel, ovvero di portare Sergio a casa con loro, sancendo di fatto l’inizio di una vita dedicata a lui. Le osservo: sono due donne tanto consapevoli quanto sole. E’ una delle cose di cui Lina mi parla con maggiore foga – Isabel, l’ho già detto, parla poco-.

“Inizialmente c’erano molte persone che mi dicevano “Lina, se ti vuoi prendere una pausa conta pure su di me. Poi a mano a mano che passavano i giorni, i mesi, le persone disponibili erano sempre meno, poi più nessuno. Amici, parenti, istituzioni: nessuno.”

Dal momento in cui Sergio è rimasto paralizzato dalla testa ai piedi, bloccato all’interno di sé stesso con la mente intatta e le espressioni facciali come unico e debole mezzo di comunicazione, anche le vite di Lina e Isabel hanno subìto una brusca frenata. Non c’è stata più nessuna festività degnamente celebrata, nessuna vacanza al mare, o in montagna. Non c’è più stata una vita cosiddetta normale, basti pensare all’assenza di intimità che regna in casa Moscheni per la presenza del personale paramedico di cui Sergio ha continuamente bisogno. Nessuno spazio nemmeno per le leggerezze.

“Non lavoro più nei bar e nei ristoranti, non ci riesco.”, dice Isabel. “Non sopportavo più di vedere persone incavolate per un caffè fatto male, o perché nella loro bibita mancava il ghiaccio. Per anni non ho più avuto la testa per impegnarmi in un progetto, poi ho fatto il corso per diventare OSS ed ora lavoro in una clinica nel reparto fisiatrico: sento che il mio posto è lì”.

Lina mi indica un divano proprio dietro di noi, in cucina, accanto al monitor da cui si vede il Signor Moscheni: mi dice che da quando è capitato l’incidente lei dorme lì, e mai più di due ore per notte. In camera non c’è mai più voluta tornare. E’ stanca, Lina.

“Se mi aprissero mi troverebbero dentro tutto un marciume, un pot-pourri di nervosismo, impotenza e solitudine. Ma se mi chiedi se mi sono pentita della mia decisione, la mia risposta è no: dovevo difendere la dignità di mio marito, non potevo più sopportare di vedere come lo trattavano nelle strutture in cui siamo stati.”

Arriva il momento di conoscere Sergio. Lina ci fa strada nella stanza accanto che è ancora più luminosa dell’atrio: il Signor Moscheni è nel suo letto davanti ad un’immensa vetrata che dà sul lago. I colori sono caldi e tenui, l’atmosfera è calma, l’unico contrasto di colore è dato da una bandiera della Ferrari appesa sopra la televisione che Lina accende quando c’è il Gran Premio. “Sempre stato un gran tifoso mio marito, vero?” dice guardandolo. Mi sorprendo ad ascoltare come cambia il suo tono di voce quando parla a suo marito: il timbro perde le note di durezza per lasciare spazio ad una dolcezza quasi materna.

Moscheni

Saluto Sergio, i suoi occhi si illuminano quando vedono quelli di Monica, la consulente di Giesse che mi ha accompagnata a conoscere la Famiglia Moscheni.

Domando di poter scattare qualche fotografia prima di andarmene; Lina mi dice che non vuole che io fotografi suo marito. “Non per cattiveria, ma non ho modo di capire se è quello che lui vorrebbe, quindi nel dubbio preferisco di no.” La dignità per prima cosa, ancora una volta.

Chiedo ad Isabel di mettersi in posa davanti alla finestra che dà sul lago “anche di spalle, se preferisci” le dico. Isabel cammina incerta verso lo spazio di posa, un po’ contrariata per la mia richiesta. Noto che Sergio la segue con lo sguardo. Isabel decide di non darmi le spalle. Si volta verso di me, si mette timidamente in posa ma con gli occhi che fissano dritto verso l’obiettivo della macchina fotografica. Il suo sguardo mi entra dentro, va ad intrecciarsi con delle cose che fino a quel momento erano solo sensazioni informi dentro di me, le plasma e fa in modo che io possa esprimerle (o tentare di) in parole.

In quel momento capisco il vero significato della parola “paralisi” aldilà della definizione del dizionario. Capisco che Lina e Isabel stanno vivendo qualcosa che ha a che fare con un’ellissi tra l’infinitamente grande e il suo contrario, fra il bianco e il nero, fra il blu del lago e l’azzurro del cielo, fra il bene e il male, fra la quasi vita e la semi morte.

Chiudendo il cancelletto della villa mi trovo a pensare che in realtà non mi sono sentita di troppo ad essere lì. Mi chiedo come posso fare per evitare di riversare nel mio racconto dell’incontro l’empatia, la rabbia, il rancore feroce che sento di provare per la solitudine e l’abbandono che ho conosciuto oggi, per la fredda macchina burocratica che spesso considera le persone in stato vegetativo come non-persone, e ignora i bisogni dei loro familiari lasciandoli soli. Per questa storia che, stavolta, lo so, non mi ha regalato il conforto di un lieto fine.

Dott.ssa Claudia Rualta

 

Il Signor Sergio Moscheni si è spento nel mese di novembre 2018.

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