COMPENSO SOLO A RISARCIMENTO OTTENUTO
Intervista a Walter Castiglione a cura della dott.ssa Claudia Rualta, copywriter.
Questo è il racconto di una chiacchierata sulla normalità, su quanto a volte vada costruita, cercata e inseguita nonostante il fiato corto.
Sembra un cortocircuito di senso, vero? L’accostamento tra le parole normale e costruire può infatti suonare strano alla maggior parte di noi perché la normalità è un concetto dal quale spesso fuggiamo, la troviamo una cosa scontata. Il nostro imperativo è rompere gli schemi, differenziarci. Che schifo la normalità. Che banale la normalità. E invece…
Walter Castiglione il 24 settembre 2016, a Longone al Segrino (CO), è stato investito da un’automobile mentre si stava allenando in bicicletta. Ha riportato un trauma che gli ha provocato una tetraparesi grave. Walter ora è in una situazione di tetraplegia irreversibile. L’intervista si svolge a pochi metri dallo Stadio di San Siro, a casa di Walter e sua moglie Simona. Sono le sei di sera. Ci siamo io, Walter, Simona e Michele De Bona, manager di Giesse Risarcimento Danni. Ci scambiamo qualche parola e poi arriviamo al dunque. E questo “dunque” ve lo riporto qui.
Walter, grazie per averci accolti in casa vostra. Sa che siamo qui per un’intervista, ma più che con una mia domanda, vorrei che ad iniziare fosse lei, raccontandomi ciò che preferisce…
Vorrei innanzitutto sottolineare il fatto che io non mi sono mai chiesto il perché mi sia successo quello che è successo, ma solo il come. Il come fare per andare avanti nella situazione in cui mi sono ritrovato a dover vivere. Se mi fossi chiesto invece il perché, probabilmente sarei impazzito.
C’è qualcosa che vuole dirmi su questo “come”?
Sì. Vorrei parlare dell’importanza di continuare a fare le cose di prima, chiaramente nel limite del possibile con i mezzi a disposizione; ad esempio, avere un lavoro e riuscire a mantenerlo è fondamentale perché ti fa sentire di avere una normalità. Ero ancora in ospedale quando è venuto a trovarmi l’amministratore delegato dell’azienda in cui lavoro (*Bosch, ndr), gli ho detto “guardi che io vorrei tornare al lavoro” e lui “non si preoccupi che il suo posto rimane lì. A noi il suo cervello serve.” Questa cosa mi ha tranquillizzato moltissimo in quei giorni infernali perché mi ha dato la speranza di poter ritrovare un filo che collegasse la mia vita di prima a quella in cui mi ritrovavo a vivere.
Simona (la moglie di Walter), c’è qualcosa in particolare di cui mi vuole parlare?
Ci siamo trovati catapultati in una realtà che faticavamo anche solo a comprendere, a sfiorare. Non ne capivamo nulla, in quei momenti non sai che cosa ti aspetta, neanche te lo chiedi, non ci vuoi sentire. Michele di Giesse è stato provvidenziale, una manna, perché quello che serve, in questi casi, è sapere nell’immediato ciò a cui andrai incontro. Perché, ripeto, non lo sai minimamente!
Non ci pensi ai dettagli, che poi non saranno dettagli quando tornerai a casa o sarà finita la prima fase “di emergenza”. Devi imparare un modo nuovo di vivere e trovare una definizione diversa di quotidianità, che passa anche e soprattutto attraverso gli ausili materiali e terapeutici. Questi ausili, che non sono vezzi ma esigenze, non ti arrivano dal Sistema Sanitario Nazionale: se non hai i soldi per poterti pagare un montacarichi, una carrozzina adeguata e performante, le sedute di fisioterapia, vai a picco.
A me è venuta un’ernia a tirare su Walter dal letto ogni giorno, per dirne una. Ci siamo rattristati molto di non poter girare per delle strade che non fossero asfaltate, perché con la carrozzina normale non puoi andare in quelle sterrate. E allora che fai, resti in casa sempre? No, chiaro che cerchi un modo per andare avanti. Ma è costoso, non solo mentalmente, anche finanziariamente.
Ogni volta che arrivava un’esigenza nuova – perché è così che funziona, ogni giorno scopri di avere bisogno di qualcosa per poter fare ciò che prima era normalissimo – era una tragedia.
Walter, ha qualcosa da aggiungere su questo tema?
Lo Stato non passa le cose che sono necessarie per tentare di vivere una vita che si avvicini quanto più possibile alla normalità; non si capisce che non sono un vizio ma cose necessarie. Per dirne una, io ho bisogno di fare fisioterapia almeno 3 volte alla settimana; il Sistema Sanitario Nazionale me ne passa 10 all’anno. Si rende conto? Significa neanche una seduta al mese!
Inoltre, non è nemmeno facile trovare centri in grado di darci sostegno. I centri scarseggiano, non c’è rete, sei totalmente abbandonato. Chi chiami? Io ho avuto la fortuna di avere accanto a me una donna che combatte come una leonessa, cercando sempre un modo per trovare centri specializzati, personale preparato per le mie esigenze, strutture che mi possano aiutare. Lei ha sempre cercato di fare il suo meglio. Ma poi c’è il rischio di diventare un peso, e io non voglio esserlo.
Lei, Walter, è una persona molto positiva. Ma mi dica, non le capita davvero mai di pensare al famigerato perché di cui si parlava prima, oltre che al come?
Le uniche volte in cui mi faccio prendere dalla malinconia è quando vedo le persone correre, o fare sport. Lì non è affatto facile, io sono sempre stato un grande sportivo. Però poi mi concentro su ciò che ho, Simona, mio figlio, il mio lavoro, i mezzi per poter almeno perseguire il desiderio di una certa normalità. E le domande svaniscono lasciando spazio al come fare per vivere questa vita, l’unica che ho, al meglio che posso, coi mezzi che ho.
Cosa mi porto a casa da questo incontro?
Quello che mi pare di aver capito è che usare le parole precise, chiamare i problemi col loro nome, è necessario. E ancora prima, che è fondamentale sollevarli i problemi e alzare la voce sul diritto che hanno tutti di vivere una vita che si avvicini quanto più possibile alla normalità. È necessario, se vogliamo che la gente la smetta di trattare chi ha una disabilità solo come qualcuno da compatire e non come una persona con una vita da vivere al massimo delle possibilità.
Ho capito anche che la disabilità ha molto a che fare con l’adattabilità, ma non esiste possibilità di adattamento se non ci sono i mezzi per poterlo fare. Se è vero che una persona può cercare di accettare quanto più possibile una condizione che le cambia la vita intera, resettando ogni abitudine precedente e lavorando molto su se stessa, è altrettanto vero che non può farlo se non ha i mezzi per usufruire degli ausili più moderni che gli permettano di sfruttare al meglio il grado di autonomia fisica che le è rimasta.
Ciò che passa lo Stato non consente di vivere una vita dignitosa.
Non esiste una rete di centri specializzati, di professionisti e di servizi che sia strutturata. Se non ci sono i mezzi – i soldi, si, i “famigerati” soldi –, e se non ci sono persone tenaci accanto a te, con una forza di volontà ferrea, non ce la fai.
Non so dirvi a quale lettera della parola normalità si siano appesi Walter e Simona, né di quale consonante o vocale si siano armati per portare avanti la loro vita e combattere ogni giorno per guadagnare un’altra lettera, in uno Stato che fa davvero poco per facilitare le cose.
Ci salutiamo, si è fatto tardi e loro devono andare a cena fuori. Esce dalla sua stanza Andrea, loro figlio; ci saluta, ha un sorriso gentile e uno sguardo determinato, come quello del padre. Poi Walter fa una battuta, Simona finge di arrabbiarsi, poi mi guarda e mi dice:
“Lo sopportavo prima, lo sopporto ora”.
“Però. Quanta normalità in questa frase”, mi viene da pensare.
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